Il Piave mormorava … da Nervesa a Mariupol
di Franca Sinagra Brisca
Nelle piazze di ciascun Comune nel versante tirrenico messinese monumenti celebrano il ricordo dei propri/troppi caduti nella I Guerra, con l’elenco dei nomi di quanti non hanno più voce per raccontare. Spesso vi sono aggiunti anche i nomi dei caduti della Seconda, come si trattasse della fossa comune di un'unica guerra. Nuove fosse comuni ancora in Ucraina … ma le guerre non sono tutte uguali, negli scopi e nella conduzione, di uguale c’è il massacro nello scontro territoriale fra eserciti in battaglia con estensione alle città e ai civili inermi moderno obiettivo da eliminazione e, se si vuole infierire “in toto”, c’è l’opzione delle armi nucleari. Il braccio dell’uomo si fa sempre più lungo per annientar-e/-si, dal bastone primitivo al missile nucleare.
In questo aspetto commemorativo dell’arredo urbano risultano trascurati i racconti scritti da chi, raro soldato alfabeta, è ritornato salvo a casa, tenendosi stretto il proprio diario e cercando di superare il dolore di quell’esperienza sottraendo il manoscritto alla conoscenza altrui, anzi nascondendolo come se contenesse il vissuto documentato di qualche pestifera malattia, da bandire anche dalla realtà materiale e mentale. Scelta dettata dalla necessità di cicatrizzare col tempo un dolore non condivisibile perché inenarrabile, decisione utile a ricostruire la serenità della sopravvivenza propria e dei familiari, palese pratica di occultamento significativa dello scongiuro “mai più guerra”.
I documenti scritti permangono nel tempo in attesa che il messaggio di cui sono veritieri testimoni venga riconsiderato quando l’obbrobrio, decantato dal tempo, sottoporrà gli autori e gli accadimenti a un giudizio a carattere prettamente pedagogico, pur riproponendone la pena. Infatti i diari di guerra sono eredità di avi defunti. Della Prima Guerra si hanno pochissimi documenti diaristici, tanto che i siciliani la pensano per lo più con un vago sentimento fra l’eroismo e la compassione, specialmente per i reduci mutilati. Unico diario assurto agli onori nazionali è quello stupefacente e corposo di Vincenzo Rabitto intitolato “Testa matta” che, cominciando dal fronte orientale, racconta tutta una vita come fosse stata una guerra continuata.
Sulla costa tirrenica nebroidea sono emersi casualmente alcuni scritti diaristici. Il primo del soldato sinagrese Filippo Mola, consistente di due quaderni contemporanei, uno a carattere ufficiale militare e l’altro liberamente intimistico, è già commentato nel libro Diari sinagresi di guerra e di pace.
Gli altri due diari, altrettanto interessanti, hanno trovato ostacolo alla pubblicazione nella riservatezza dei familiari. Dal fronte orientale friulano il soldato Natale Messina da Naso trasferisce le sue accorate oggettive descrizioni in pochi fogli densi di riflessioni e siglati in grafia minuta. Un grande interesse sta nella corrispondenza quasi quotidiana dei coniugi orlandini Paolo Paparoni e Lucia Santaromita, dove è possibile raccogliere notizie sia dall’inferno del Fronte sia dalla parallela trincea domestica, in piena crisi per fame e malattia, dove la moglie è costretta a barcamenarsi per la salvezza familiare pur sebenestante.
Di un gruppo di coscritti, socialisti pacifisti già da tempo attivi del territorio fra cui Pietro Pizzuto da Ficarra amico dell’antifascista Francesco Lo Sardo, si conosce la vicenda bellica dalle scritture del tribunale militare di Pradamano, dove il gruppo evitò la fucilazione guadagnando l’equivalente rischiosa condanna a rientrare in prima linea.
Come disse Platone, solo chi si sarà salvato potrà raccontare della guerra, e ciò che accomuna questi diversi diari è proprio il rifiuto della guerra.
La lettura di questi scritti lascia dedurre le connotazioni socio-culturali che introdussero gli sviluppi socio-politici dell’Italia nell’evoluzione verso la Seconda Guerra. Si può parlare di prefascismo nel sinagrese, di umanità religiosamente costruttiva nel contadino nasitano, dell’insofferenza totale alla situazione bellica nel commerciante orlandino, contrapposta all’attivismo della moglie in obbligata eroica autonomia di genere. Soldati già ammogliati, evidenziano il comune sguardo attonito e confuso di chi, costretto dalla chiamata alla difesa della patria, si trova nelle panie e annota un deciso rifiuto dei risultati della follia guerresca, mortiferi per lui stesso e per l’ambiente.
Già alla partenza per il fronte Filippo, piccolo benestante, apprezza il carattere di gita nel risalire l’Italia prima in nave e poi in treno, gode dell’offerta di fiori e saluti alle fermate ferroviarie gettando un occhio alle belle donne. Messosi sotto la tutela del superiore, con l’incarico prestigioso di caporale sopporterà la delusione di trovarsi in pericolo all’addiaccio sotto il tiro nemico. Aiutato dalla buona costituzione fisica emergerà da una valanga di neve e spericolato sopravviverà ai bombardamenti, nonostante ne subisca danni psicologici deliranti, come credersi a un certo punto immortale. Svilupperà capacità tecniche nel costruire ripari e posizionare il cannone, senza sentimenti di pena per il contesto mortifero di distruzione perché accetta che far danno e subirlo debba far parte del gioco. Vittorioso e medagliato, ritornerà nel 1919 al suo paesello e aderirà al fascismo con piglio organizzativo.
Natale invece scrisse su pochi fogli volanti le vicende proprie e dei compaesani, che cercava per riallacciare i rapporti umani desertificati fra la folla degli uomini-carne da macello; scrivendone egli ricostruisce i valori della convivenza contadina, che il figlio democristiano rappresenterà politicamente più tardi. Senza riconoscere spiegazioni accettabili per quel massacro, Natale prova stupita meraviglia quando i suoi occhi scoprono i primi grandi aerei in sosta negli hangar, mentre compiange le bestie travolte, deplora i disastri paesaggistici, abitativi e naturali e lascia trapelare un giudizio filosoficamente maturo nel condannare in toto la guerra. Da lui una descrizione dell’orrore e della città di Nervesa rasa al suolo, per questo rinominata “della battaglia”.
Paolo, il commerciante, si dispera fin dalla partenza alla stazione, si lamenta con la moglie di essere stato “vestito da burattino”, per tre anni rifiuterà il rancio facendosi spedire il denaro per cibarsi. Registra molte note di informazione commerciale delle produzioni presenti nei luoghi che attraversa, compra scarpe di buona fattura, tessuti confezionati, stoffe, anche la novità dei tortellini, di queste merci riempie pacchi che spedisce a casa prefigurando rapporti commerciali futuri che già ha cercato di avviare. Ogni volta che rientra in licenza si arricchisce della la nascita di un figlio, mentre la moglie devotissima e cattolicissima lo cura, nonostante viva un difficile equilibrismo fra la conduzione di un negozio, di una falegnameria, delle coltivazioni agricole, dei commerci di caffè e dei rapporti con la Camera di Commercio. Lucia vive nella baraonda organizzata dai bambini talvolta anche contro di lei, sostiene a distanza la depressione psicologica acuta di Paolo cercando raccomandazioni per il suo esonero. Tanto impegno al limite della sostenibilità le fa dichiarare “benché donna io saprò fare” e ragionare su una possibile contrattazione con Dio, di cui disapprova la sordità a fronte della carestia e dell’epidemia spagnola (non si trovavano bare a sufficienza). Della novità degli aerei in volo sul paese vàluta la nocività dell’arma e non la novità tecnologica, da stratega improvvisata segue con ostinazione sui giornali l’andamento della guerra, mentre sulla carta geografica individua gli spostamenti del marito lungo l’arco prealpino. Ripetutamente maledice la guerra e gli austriaci.
Il dirigente socialista e anti interventista Francesco Lo Sardo, avvocato nasitano, approfittò dello slogan “pacifisti sì ma vigliacchi no” per arruolarsi volontario in prima linea e condividere coi compagni la missione pacifista. Ferito gravemente al polmone, per la contraddizione normale dell’etica politica, la medaglia al valore di guerra gli sarà attribuita mentre, deputato antifascista del Partito Comunista e condannato dal Tribunale Speciale, si trova in carcere dove, non curato, gli sarà imposta la morte per malattia e stenti. Di lui non si hanno scritti rilevanti sulla guerra, mentre per gli altri conterranei anti interventisti parlano i verbali del tribunale militare.
Di questi tre soldati, di una donna e del gruppo pacifista non è azzardato dire che in nuce contengono l’evoluzione politica e partitica dal primo dopoguerra verso la seconda guerra, nonché del secondo dopoguerra fino all’oggi. A ben guardare le posizioni politiche, giornalistiche e culturali manifestate nella società italiana dallo scoppio della guerra Russo- Ucraina, quelle posizioni permangono se le confrontiamo alla millenaria dialettica fra guerra e pace, fra armento e disarmo, fra dittatura e democrazia, così allo sgretolamento di confini per ampliare il possesso o l’influenza, alla riorganizzazione di coalizioni e perfino alla cobelligeranza in una guerra per procura (partecipi anche le religioni).
Da Stalingrado, Dresda, Beirut, Kabul e troppe altre città rase al suolo in lunga serie fino ad Aleppo e a Mariupol, il giornalismo degli inviati di guerra e i comunicati politici hanno sostituito gli antichi diari, proponendoci informazione e riflessione attraverso le inquadrature fotografiche e il mixaggio video. Gli scrittori e i letterati seguiranno quanto prima con racconti e romanzi per comunicare i vissuti sulla pelle di personaggi e di ambienti vecchi e nuovi, descritti per chi vorrà addentrarvisi con la propria originale sensibilità interiore più che con gli imput inconsciamente introiettati nell’immediatezza acritica delle immagini visive in movimento.
Poeti e narratori da sempre hanno prefigurato la pace. La letteratura, da intendere come fonte di conoscenza riflessiva e di compendio storico, oggi insieme a giuristi e geopolitici già precede e affianca una nuova globale “Costituzione della Terra”, (testo di Luigi Ferrajoli) per liberare l’identità dei popoli troppo a lungo giocate da poteri irresponsabili contro complicati confini nazionalistici o frutto di spartizioni (salvare la patria?). Una serie di appelli molto noti reclamano l’attuazione oltre i confini dell’ideale, perché la guerra è l’espressione più distruttiva del potere patriarcale, perché è stata definita la banalità del male, perché un altro mondo è possibile, perché la guerra non funziona/risolve mai … Già le molte Dichiarazioni Universali dei Diritti, l’operatività di associazioni come Amnesty, Emergency, Medecine sans frontiere, migliaia di Ong e la popolazione dell’associazionismo sociale preannunciano la necessità e la fattibilità di un nuovo ordine costituente mondiale per tutti i popoli.
Per questo 24 maggio sarà il Don non solo a fermare per la seconda volta lo straniero, ma potrebbe mormorare la necessità di un nuovo assetto deterrente la violenza guerresca, prima che tutto il pianeta sia perduto: “Se non ora, quando?”