I silenzi dell’alluvione

I silenzi dell’alluvione

di Elena Zauli Delle Pietre -

Villanova di Bagnacavallo, 20 maggio 23
Ci sono tre silenzi che coprono come un manto il ritmo della vita: quello della nebbia, quello della neve e quello di un’alluvione. Ma se il primo è un silenzio impregnato di mistero e sospensione, se il secondo poi improvvisamente viene rotto dalle urla gioiose dei bambini, quest’ultimo, quello dell’alluvione ha qualcosa che pare nascere dal profondo stesso dell’animo, per estendersi nelle vie, nei campi, circondando tetti, balconi, camini, cortecce, strade. Non è un silenzio di sospensione come gli altri, è denso di dolore che difficilmente può essere espresso. Il dolore scorre come le acque del fiume dentro le sponde alte di un contenimento interiore. È troppo difficile esprimerlo perché difficilmente la parola è in grado di rappresentarlo.
Quanto voglio raccontare, però, sono i rumori che si affacciano in questo silenzio. Non posso uscire di casa, acqua e fango ovunque, guardo dalla finestra il paesaggio lacustre, proprio lì dove fino a pochi giorni fa era terra e coltura, fiori e sementi. Sul fare della sera, il canto dell’usignolo sui prugnoli pare voler ricordare la bellezza della natura, anche quando diventa sovrana e matrigna, come in questi giorni. Si uniscono le voci intrecciate di merli e passeri, il garrito di una rara rondine che quasi veleggia sulle acque. Poi tutto tace… minuti, ore. Lieve a tratti il rumore di una pioggia ora aggraziata, che non spaventa, anche se giunge inopportuna.
Ieri no, non c’era questa pace che sottende il dramma che tutti noi qui stiamo vivendo.
Ieri il cielo e la terra erano attraversati da urla strazianti, che mi hanno portato con la mente agli orrori dei lager durante la guerra. Perché anche qui da noi e ancora oggi esistono lager. Sono quella schiera di allevamenti di maiali condannati a vivere senza conoscere il sole e il profumo della primavera. L’acqua li ha raggiunti, proprio mentre allagava anche la mia casa. Le grida disperate, coro convulso di un terrore che era disperazione, sono durate solo qualche decina di minuti. Poi di nuovo il silenzio.
Questo silenzio ancora più agghiacciante delle grida stesse. Son rimasta impotente, ad ascoltare. Nulla, più nulla.
Le ore passano, qualche sirena dei pompieri lontano. Io non so dove arrivi l’acqua e dove riprenda la terra, non so che accade qui vicino. È più facile sapere di cose più lontane, delle città intorno che hanno una voce più grossa di quella di chi vive in campagna.
Ogni tanto si odono delle voci dalla strada e subito viene istintivo affacciarsi.
Sprofondati nell’acqua, ora più ora meno, volti mai visti regalano una parola, un sorriso, conforto. Sono i volontari del mio paese che tutto il giorno passano di casa in casa per chiedere ciò che serve, per sapere come stiamo. Non è facile chiedere acqua e pane, qualcosa dentro mi dice che tutto sommato a me è andata anche fin troppo bene e che quel che serve a me serve probabilmente molto più ad altre persone. Verrebbe voglia di unirsi a loro, dimenticando che anche io faccio parte degli alluvionati.
Ogni tanto anche la voce del vicino, che non possiamo vedere per l’alta siepe che ci separa, giunge gradita. L’infinito leopardiano in questo momento non serve, serve sapere che c’è qualcuno dietro quella siepe con cui parlare, scambiare battute giusto per il gusto di non perdere del tutto il sorriso.
La pioggia ora rimane nuvola. Ecco allora il rumore delle pompe che aspirano acqua chissà dove per buttarla chissà dove. Come scavare nel mare. Magari a qualcosa serve, ma non riesco ad immaginare come.
Anche in casa sono nati nuovi rumori. Un gorgoglio continuo da vari punti del piano terra sembrano brontolii di un intestino misterioso. Di notte, dove tutto tace e nemmeno il canto degli uccelli rompe l’atmosfera immobile, questi suoni hanno un che di inquietante. Mio marito li chiama “i suoni del Titanic mentre affonda”. Non concordo.
Mi piace pensare che lo spirito della borda, strega delle acque che per secoli ha popolato l’immaginario di queste terre un tempo acquitrini, sia risorto e dai tubi dei sifoni allagati le sue parole escano storpiate, contorte, disarmoniche, liquide.
L’altro giorno qualcuno gridava aiuto dal mezzo della strada, qualche centinaio di metri da noi. Siamo usciti preoccupati. Niente di grave: è l’imbezel di turno che ha tentato con il furgone di percorrere la mia strada e ovviamente l’acqua gli è entrata nel motore.
Impossibile andarlo a recuperare nemmeno con un trattore. Per cui ci siamo messi tutti lì a guardare la scena ridendo nel vederlo avvicinarsi sempre più in mutande e calzini.
Il furgone è ancora lì e lì rimarrà ancora a lungo. Lo immagino sfilare così conciato per le vie del paese. Scena felliniana.