Perché il record italiano di astensionismo deve preoccupare per davvero

Perché il record italiano di astensionismo deve preoccupare per davvero

di Ferdinando Pappalardo -

L’8 e il 9 giugno scorsi, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, in occasione di elezioni politiche generali per il Parlamento europeo si è registrato un numero di votanti inferiore alla metà degli aventi diritto: il fenomeno dell’astensionismo, che dura da anni e che ha acquistato col passare del tempo proporzioni crescenti, ha toccato dunque il suo punto estremo (per ora). A determinare il dato è stata in buona misura la calante affluenza alle urne nelle due circoscrizioni meridionali (rispettivamente, il 43,7 per cento nel Sud peninsulare e addirittura il 37,8 per cento nelle Isole), non contenuta neppure dalla concomitanza con una tornata amministrativa che ha interessato molte città medie e piccole.

Antonio Decaro è stato eletto al Parlamento europeo con quasi 500mila preferenze (Imagoeconomica, Andrea Panegrossi)

A Bari, per fare un solo esempio, nonostante l’effetto di traino esercitato dalla candidatura alle europee del sindaco uscente Antonio Decaro (sul cui eccezionale risultato si avrà modo di ritornare), si è recato ai seggi il 58 per cento circa degli aventi diritto al voto, rispetto al 64 per cento circa del 2019. E appunto sull’ennesima, grave flessione dei votanti nel Mezzogiorno s’intende qui svolgere qualche rapida considerazione, dopo una premessa di ordine generale.

I simboli del partito democratico e di quello repubblicano statunitensi

Sulle cause del costante aumento della disaffezione degli elettori esiste una letteratura ormai sterminata. Non mette qui conto passare in rassegna il ventaglio delle interpretazioni avanzate in proposito da politologi, sociologi, statistici: ma alcune di esse meritano un minimo di riflessione. Più d’uno sostiene che non bisogna preoccuparsi della scarsa partecipazione al voto perché essa è tipica di ogni società industriale avanzata, e invoca a conferma il caso degli Stati Uniti d’America: ma l’assunto non regge. La democrazia americana, a differenza di quelle europee, non ha mai avuto come protagonisti i partiti di massa; in più, il suo sostanziale bipolarismo è un fattore limitativo dell’offerta politica, per quanto democratici e repubblicani ospitino sensibilità diverse, e la legge elettorale uninominale restringe notevolmente le possibilità di scelta degli elettori.

(Archivio fotografico Anpi nazionale)

Infine, per quanto riguarda la situazione italiana, non si può non rilevare come la percentuale degli astenuti sia paradossalmente più alta nelle campagne, ovvero nelle aree meno investite dai processi di modernizzazione. Se proprio si vogliono assumere a termine di riferimento gli Usa, converrà chiedersi in quale misura sulla decisione di disertare le urne abbiano inciso da noi la dissoluzione dei partiti di massa novecenteschi (formidabili strumenti di promozione e di organizzazione della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica), il tramonto delle ideologie (che hanno per decenni dato forma agli ideali, ai valori, persino ai sentimenti di vasti mondi sociali) e, relativamente al voto politico, l’adozione di una legge elettorale che, nella sua parte proporzionale, espropria gli elettori del diritto di scegliere i propri rappresentanti.

(Imagoeconomica, Claudia Colombo)

Ancora: in molti osservano che le elezioni europee non esercitano grande fascino perché la Ue è avvertita da larghi settori della cittadinanza come un’entità distante, estranea e persino ostile, un’arcigna autorità la cui funzione si esaurisce nella imposizione di obblighi, di vincoli, di divieti (a mutare in meglio questa immagine, peraltro enfatizzata dalla propaganda sovranista, non sono servite le timide misure solidaristiche varate a ridosso dell’emergenza pandemica); e perché il Parlamento europeo appare un organismo debole, soverchiato dalle prerogative del Consiglio e della Commissione. Forse anche perché consapevoli di questo diffuso stato d’animo, i leader delle nostre maggiori forze politiche, di governo e d’opposizione, hanno giocato la carta della “nazionalizzazione” del voto, attraverso una campagna elettorale incentrata su temi di politica interna: ma l’espediente non ha pagato, segno che le radici dell’astensionismo sono profonde e prescindono dalle circostanze specifiche.

Una protesta durante una manifestazione a Taranto. Imagoeconomica, foto di Saverio De Giglio

Il crollo della partecipazione al voto nel Meridione si colloca dentro un quadro complessivo caratterizzato dalla sfiducia nella politica, dovuta a fattori troppo noti per dover essere richiamati: una sfiducia che a sua volta ha generato disillusione, rancorosa rassegnazione, distacco progressivo fra società e istituzioni, arroccamento corporativo ed esasperato individualismo. Ma le dimensioni dell’astensionismo nel Sud dipendono anche da ragioni particolari, riconducibili in ultima istanza – per quanto possa suonare banale – alla irrisolta questione meridionale. Senza spingerci troppo a ritroso nel tempo, si deve riconoscere che tutte le politiche per il Mezzogiorno messe in atto in età repubblicana non hanno conseguito risultati decisivi.

(Imagoeconomica, Carino by Ia)

La riforma agraria, i piani d’industrializzazione realizzati attraverso l’intervento straordinario, l’incentivazione dello sviluppo autopropulsivo (ispirata alla volontà di mettere fine all’assistenzialismo), non sono serviti a colmare il divario fra le Regioni meridionali e il resto del Paese, e qualche volta hanno persino aperto nuove piaghe (si pensi soltanto all’Ilva di Taranto). A seguire, l’insorgere della “questione settentrionale” (levatrice della improvvida modifica del Titolo V della Costituzione), la conseguente riduzione della questione meridionale a questione criminale, i drastici tagli alla spesa pubblica e la sua mancata riqualificazione, lo smantellamento di interi settori produttivi causato dall’uscita di scena dello Stato imprenditore e dalla globalizzazione dell’economia e del mercato, hanno accentuato le disuguaglianze, ulteriormente ristretto lo spettro delle opportunità e dilatato l’area della povertà, sgretolato la coesione sociale e il tessuto civile, aggravato gli squilibri territoriali (il cui aspetto più vistoso è il progressivo spopolamento delle zone interne). Superfluo aggiungere che l’attuazione dell’autonomia differenziata aggraverebbe in misura forse irreparabile una situazione già drammatica.

Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, è stato eletto al Parlamento europeo con 380 mila preferenze, di cui oltre 254 mila solo nella sua Regione

Non deve perciò meravigliare che il Meridione (si perdoni la generalizzazione, ma lo spazio disponibile non consente di entrare nei dettagli) si senta non soltanto abbandonato, ma addirittura tradito. Alla politica le popolazioni del Sud non chiedono miracoli, e neppure elemosine; chiedono che le loro legittime istanze siano almeno ascoltate e prese sul serio, che venga rispettata la loro dignità; chiedono di essere messe nelle condizioni di costruire il loro futuro senza vedersi costrette a pagare perennemente il prezzo di secolari arretratezze. Si spiega così il plebiscito ottenuto alle elezioni europee da Antonio Decaro. Al di là del positivo bilancio dell’azione amministrativa, durante i dieci anni di mandato di sindaco della città metropolitana Decaro ha percorso migliaia di chilometri, ha incontrato un numero enorme di persone, ha dialogato con loro, ha mostrato attenzione ai loro bisogni, si è fatto carico delle loro attese. A essere premiate sono state appunto la sua dedizione, la sua cura del bene comune, la sua costante interlocuzione con gli individui in carne e ossa; a essere premiata è stata insomma una politica non autoreferenziale ma vicina ai cittadini, partecipe delle loro sofferenze e delle loro speranze, interessata al loro destino (per inciso: non sembra davvero un caso che un lusinghiero consenso sia stato raccolto anche da altri sindaci e da un presidente di Regione candidati al Parlamento europeo).

Il mito di Masaniello. Un ritratto di Aniello Falcone

Orbene, non si vede perché queste eccezioni non possano diventare regola, perché il loro insegnamento non debba essere messo a frutto; e soprattutto non si comprende perché, al di là delle stucchevoli geremiadi di rito, continuino a essere colpevolmente sottovaluti i pericoli che l’astensionismo comporta per la tenuta stessa della democrazia: quando i cittadini rinunciano a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come recita l’art. 49 della Costituzione, l’involuzione autoritaria è dietro l’angolo. L’allarme riguarda soprattutto il Mezzogiorno. A qualcuno fa comodo – per cinico calcolo o per cattiva coscienza – rappresentarsi le popolazioni meridionali come afflitte da un atavico immobilismo, da una fatalistica remissività.

Reggio Calabria nel 1970 fu teatro di una rivolta popolare cavalcata dai movimenti di destra, in particolare dal Msi, che durò ben otto mesi e costò 5 morti e 2.000 feriti. L’esponente missino e sindacalista Cisnal Ciccio Franco rilanciò il motto “boia chi molla”, di dannunziana matrice, e ne fece uno slogan per incendiare la protesta dei reggini sulla scelta di Catanzaro come capoluogo  (Archivio fotografico Anpi nazionale)

Ma la storia racconta che la loro passività non è una condizione perenne, e che lo stato di quiete apparente cova una rabbia pronta a esplodere: nonostante sia trascorso più di mezzo secolo, non dovremmo dimenticare la rivolta di Reggio Calabria, in cui rivendicazioni campanilistiche fecero da detonatore a un profondo malessere sociale. Insomma la pazienza del Mezzogiorno non è infinita, e si può stare certi che quando verrà toccato il punto di rottura (probabilmente lo provocheranno gli effetti dell’autonomia differenziata), la protesta scoppierà e imboccherà la via o della sedizione violenta contro le istituzioni (lo spettro di Masaniello continua ad aleggiare sulle contrade del Sud), o dell’acclamazione di un “re taumaturgo”, di un uomo (una donna) che prodigiosamente guarisca dagli antichi mali e compia il riscatto di una comunità. Scenari entrambi inquietanti per chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia costituzionale.