Le storie: Agatino Cifalà, morto a Flossenbürg

Agatino Cifalà

a cura di Angela Maria Trimarchi

La voce di Maria, ottant’anni a gennaio, dall’altra parte del telefono è incerta. Mentre le parlo mi chiedo se questo portarla a tornare su eventi dolorosi nella sua storia non sia un impertinente indagare su un passato ricacciato nei meandri di un oblio rassicurante. La sua domanda è chiara: «Cosa vuol sapere da me? Avevo solo due mesi quando papà è morto. Sono andata a Flossenbürg con mio cugino, Letterio Cifalà. Andavo quasi ogni anno a Scaletta con la mamma a trovare i parenti di papà. Clelia e suo marito Letterio sono stati per me come fratello e sorella». Tace. Penso al suo viaggio e a come debba essere stato devastante per lei fermarsi davanti a quei cumuli di cenere attorno al crematorio di Flossenbürg. Lei cercava una tomba, invece ha trovato solo una Piramide di cenere e fosse di cenere nella "Valle della Morte", al Memoriale del campo di concentramento di Flossenbürg. Mi chiedo se sa se suo padre ne Il libro digitale dei morti è schedato come Agostino, così nella scheda dell’ANPI Liguria con una cancellazione a penna sulla o e la s, sostituite sopra con la a. Sì perché Agatino è nome siciliano: un santo martirizzato a Malta o forse variante maschile di Agata, patrona di Catania. Un nome che racchiude in sé il significato di buono, nobile e virtuoso, un nome poco diffuso fuori dalla Sicilia. Poi torna a parlare di Scaletta Zanclea, del mare, dei cugini che le restituiscono un po’ del padre perduto per sempre. Scaletta era un paese di pescatori, oggi l’unico del litorale senza lungomare. Una lunga fila di case costruite lungo la ferrovia, sotto il capo a strapiombo sul mare, case in parte portate via dall’alluvione del 2009. Qualche giorno più tardi mi manda una foto e sente il bisogno di chiamarmi: «Ha visto come è bello il mio papà?». Vent’anni, due occhi grandi con un’espressione rapita, quel ragazzo in divisa mi fa pensare a ‘Ndria Cambria, il marinaio, nocchiero semplice della fu Regia marina italiana, che arrivò sui mari dello Scill’e Cariddi. Mi racconta che il padre e la madre, Antonina Neri, vivevano a Genova in via Sturla. La madre era rimasta incinta ed il padre era andata a trovarla. Lo arrestarono e lo portarono alla casa dello studente.

Mentre mi parla ragiono sulla circostanza che anche Eugenio Pertini, fratello di Sandro, il futuro presidente della Repubblica, fu arrestato a Genova nell’aprile del 1944 e poi portato alla casa dello studente, sede della Gestapo, dove fu torturato. Eugenio Pertini (21732), che era partito sullo stesso convoglio insieme al padre di Maria da Bolzano il 5 settembre di quell’anno, morì il 25 aprile 1945 probabilmente – come scrive il fratello Sandro- «nello stesso momento, alla stessa ora, nello stesso giorno, in cui alla testa dei partigiani inneggiavo alla libertà riconquistata a Milano». Lei non fa cenno delle torture ed io mi guardo bene dal parlargliene. Mi dice solo che alla madre, che voleva vederlo, dissero che doveva tornare il giorno dopo. Ma il giorno dopo era partito alle quattro del mattino e lei non riuscì a dirgli addio. Le dissero anche che il treno, diretto a Bolzano, aveva avuto un incidente nei presi di Verona ed il marito era rimasto ferito. Un modo per tacere delle torture e giustificare le ferite? Le chiedo se sa che suo padre fu arrestato perché antifascista. Mi dice di no. Il padre era troppo giovane per avere una chiara coscienza politica. Aveva solo ventitré anni. Eppure, su quel trasporto, il trasporto 81 erano tutti prigionieri politici. Ma non insisto. Italo Tibaldi, sopravvissuto del campo di concentramento di Mauthausen, scrive che trasporto, traduzione del termine tedesco Transport, è un termine quasi neutrale come del resto molti termini tecnici usati dai nazisti per celare con cinici eufemismi la realtà dello sterminio. 432 prigionieri politici provenienti da quasi tutte le regioni d’Italia e dall’estero. Figure di spicco delle Resistenza, oppositori di diverso orientamento politico (repubblicani, monarchici, liberali, cattolici, comunisti e anarchici). Operai delle fabbriche del nord Italia, partigiani rastrellati sulla montagna, anche quattro ebrei, quattro generali e qualche militare. I deportati del Trasporto 81, il primo dei trasporti, furono immatricolati a Flossenbürg il 7 settembre, dopo cinquanta ore di viaggio, con i numeri dal 21402 al 21834 e contrassegnati con il triangolo rosso. Agatino aveva il numero di matricola 21513. Alla fine della guerra solo 122 furono i sopravvissuti. Dai loro racconti abbiamo un quadro terrificante della vita e della morte nel campo. La vita quotidiana nel campo di concentramento era pericolosa e spesso mortale per i prigionieri. Le condizioni erano crudeli e disumane. Soggiogati, umiliati e sfruttati con lavoro forzato, molti deportati morirono per maltrattamenti. «Il paese di pochissime case si trovava sul dosso di una collina in una regione della Germania particolarmente fredda. Alla stazione mi colpì un deposito di pietre di tutte le dimensioni e pesi: fummo informati, dopo, che una cava di pietre era uno dei principali lavori del detto campo». Enrico Magenes (21679) «Sempre urlando e spintonandoci senza un perché, i nazisti coadiuvati dai Kapo ci incolonnarono per cinque e così come degli automi salimmo verso il paese; il lager era in cima al colle. L’indifferenza della gente del posto al nostro passaggio era quasi totale». Venanzio Gibillini (21626) Migliaia di prigionieri del campo di concentramento erano costretti a lavorare nella cava di Flossenbürg, di proprietà della Deutsche Erd-und Steinwerke (DESt). Non adeguatamente vestiti e senza le misure di sicurezza, con ogni tempo i prigionieri furono costretti a rimuovere terra, far saltare blocchi di granito, spingere vagoncini e trasportare pietre. Gli incidenti erano all’ordine del giorno. Il freddo, il lavoro estenuante, la grave malnutrizione e la violenza arbitraria delle SS e dei Kapo causarono la morte di molti prigionieri. L’amministrazione e la sorveglianza del campo di concentramento erano i compiti principali delle SS. A questo scopo furono impiegati membri delle divisioni SS Testa di Morto (Totenkopfverbände). La SS si considerava un ordine ideologico ed un élite razziale «Sulle nostre teste c’è una rete intricata di tubi. Tutto è imbiancato a calce: è la doccia. Ci ordinano di spogliarci. Qualcuno protesta e arrivano i Kapo. Ognuno brandisce un pezzo di tubo nero di gomma dura, il Gummi che cade sulle teste, spalle e natiche con terribile violenza per straziare le nostre carni nude. Come demoni furiosi attaccano alla rinfusa e urlano spiritati. Impazziti, corriamo uno contro l’altro e le nostre grida si sommano all’eco delle pareti vuote per assordarci in un crescendo indicibile. Di colpo dalle docce precipita l’acqua insieme alla gragnola delle nerbate nere e cruente». Ettore Bocchetta (21631) «La vestizione si svolse invece in tutt’altra maniera: entrò, infatti in scena un losco figuro, armato di un lungo bastone di gomma; lo soprannominammo el matador. Questi era appostato vicino alla porta e con il tubo di gomma assestava dei poderosi colpi sulle nostre spalle mentre noi raccoglievamo quello che riuscivamo a raccogliere da un mucchio di stracci accantonati in mezzo al locale». Ferruccio Belli (21678) «Dal laboratorio è uscito un paziente è Mario Ardu (21672). Ha una gamba scuoiata, gli è stata tolta la pelle dal polpaccio fino alla caviglia. Cerco di sorreggerlo e lo chiamo con tenerezza. Ma il volto ha perso ogni espressione (ricordo che parlava con gli occhi). Di schianto smette di gridare, si affloscia inerte, muore. Il mio sconcerto supera il mio sdegno. Ma poi mi calmo e mi accorgo che il suo volto ha riacquistato ora la sua espressione di serenità. Grazie sorella Morte, qui più pietosa della vita!». «In principio si parlava di politica, di patria, di libertà, di tante cose, di pace. Poi…man mano sono morti tutti, prima sono morti i nostri compagni che avevano una età media, che erano studiosi, che erano professori laureati, persone con famiglia, poi ho visto morire gente robustissima, proprio negli ultimi mesi. Ragazzi di Udine, boscaioli, carbonari di Udine, presi come partigiani e poi un po’ tutti gli altri, uno dopo l’altro sono morti tutti». Augusto Cognasso (21636) Tra loro anche Agatino, che muore il 24 marzo del 1945 per deperimento. Torno a pensare a ‘Ndria Cambria, il protagonista dell’Horcynus Orca di Stefano d’Arrigo, che dopo l’8 settembre aveva gettato le armi e cercato di tornare a casa. Agatino non fugge e sceglie la strada coraggiosa dell’antifascismo, così come si legge in un atto notorio redatto dalla Pretura di Genova (n. 5482): «Fu arrestato dalle SS tedesche il 28 maggio 1944 per rappresaglia e il 2 agosto del 1944 deportato in Germania nel campo di concentramento di Flossenbürg, ove decedette il 24/03/1945. Dichiara, inoltre, che prima del suo arresto era antifascista». https://www.deportati.it/wp-content/static/trasp81_light.pdf  https://www.gedenkstaette-flossenbuerg.de/it/